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Larry Collins (1) (1929–2005)

Författare till O Jerusalem!

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Verk av Larry Collins

O Jerusalem! (1972) 1,420 exemplar
Freedom at Midnight (1975) 1,279 exemplar
Brinner Paris? (1965) 1,076 exemplar
Den femte ryttaren (1980) 643 exemplar
Kall passion (1985) 243 exemplar
Maze (1989) 233 exemplar
Is New York Burning? (2004) 128 exemplar
Black Eagles (1992) 106 exemplar
Tomorrow Belongs to Us (1998) 55 exemplar
The Road to Armageddon (2003) 46 exemplar
O jerusalem (tome 1) (1980) 7 exemplar
Barmaid (2015) 4 exemplar
O jerusalem (tome 2) (1990) 4 exemplar

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Very interesting look at the very short period of time between the invasion of France by the Allies and the liberation of Paris. The initial plan was to bypass the city to end the war more quickly. Bold work by DeGaulle and resistance inside the city (both communists and Gaullists) altered that plan.

The book is a compilation of hundreds of stories chronologically put together to tell the big story and many of the small stories of triumph and heartbreak that make life so real. Great insight into a time that many have forgotten.… (mer)
 
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dlinnen | 15 andra recensioner | Feb 3, 2024 |
Quando Selma Rauf Hanim, l’interprete che anima il romanzo “Da parte della principessa morta” di Kenizé Mourad, fugge dall’India degli ultimi raja verso Parigi, il sub continente indiano è percorso dai fremiti d'indipendenza dal giogo della Corona inglese, ma è soprattutto lacerato dai crescenti contrasti tra indù e musulmani, una contrapposizione sempre più violenta che finirà per smembrare l’impero, ormai ex, in due nazioni (ma sarebbe meglio dire in tre), nel ferragosto del 1947, l’estate dove tutto ha inizio. La drammatica stagione in cui centinaia di morti segneranno la migrazione forzata di due comunità separate da una religione verso le terre del Pakistan occidentale ed orientale (quest’ultimo diverrà poi il Bangladesh nel 1971) e dell’India di Gandhi, paradosso di quella “non violenza” che avrebbe dovuto condurre ad una ritrovata libertà.

Quella notte d'agosto il primo Primo Ministro indiano, Jawaharlal Nehru, annunciò l'apoteosi della sua nazione: “Molti anni fa abbiamo fatto un incontro con il destino, e ora arriva il momento in cui manterremo la nostra promessa. A mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si risveglierà alla vita e alla libertà”

A raccontare tutto ciò, ed a farlo in modo magistrale, sono il rodato duo francese Dominique Lapierre e Larry Collins, navigati giornalisti d’inchiesta noti al grande pubblico per libri quali “Gerusalemme! Gerusalemme!” o “Parigi brucia”. Quattro anni di ricerche, 250 mila chilometri percorsi, senza disdegnare cavallo ed elefante, oltre seimila pagine di testimonianze originali e più di diecimila documenti di archivio, cui si sommano migliaia di fotografie, registrazioni audio e video, tutto ciò per mettere nero su bianco questo “Stanotte la libertà” (Mondadori, 1975, traduzione di Francesco Saba Sardi). Un libro e un racconto che si distinguono per l’accuratezza con cui l’impianto narrativo, che è poi anche quello storico e della cronaca, è stato costruito.

Parliamo di un’opera densa, di oltre 500 pagine, il cui stile tra romanzo e inchiesta giornalistica lo rende assai più agile e dinamico di un saggio classico. Gli eventi, i personaggi, piccoli o “grandi” che siano, hanno il sopravvento e come attori circondati da migliaia di comparse riempiono, talvolta saturano, la scena. Ciò per dire che il vero protagonista resta il racconto dei fatti che, anche ove emerge l’incomprensibile crudeltà degli eventi, non si trasforma mai in una lamentazione per una parte o per l’altra (pur nascondendo tra le pieghe qualche inevitabile preconcetto), discreto esempio di equilibrio già dimostrato da Larry Collins e Dominique Lapierre nel narrarci della liberazione di Parigi e dell'assedio di Gerusalemme. Gli autori, secondo le parole spese all’uscita del libro nel 1975, “hanno ricreato i giorni tumultuosi in cui un subcontinente e i suoi 400 milioni di abitanti divennero liberi, solo per scoprire che il prezzo della loro libertà era la spartizione del loro Paese, la guerra, le rivolte e l'omicidio”.

Questo libro condensa dunque gli eventi che portarono alla rapidissima disintegrazione nel 1947 di quello che gli inglesi amavano definire il “più grande gioiello della Corona”: l’India. Un’operazione complessa, di straordinaria difficoltà e talvolta di crudeltà, ma che ha sottratto al volere di Dio, o meglio al potere politico di chi in nome di qualsivoglia divinità avrebbe voluto un paese tutto per se, affidandolo a due uomini, Sir Stafford Cripps e Lord Mountbatten, gli artefici della divisione del Paese e forse anche dell’inizio di quel progressivo ed inevitabile sgretolamento di un’epoca, quella coloniale, governata da inglesi, francesi, olandesi e portoghesi.

“Stanotte la libertà” è la testimonianza delle tribolate negoziazioni che portarono a quella storica mezzanotte in cui tutto finiva e tutto iniziava. La narrazione dell’interminabile disputa tra musulmani e indù, tanto emotiva quanto politica. Con pagine pregne del carisma di Gandhi e della logica di Nehru, pagine che si affollano nei momenti più drammatici della narrazione fondendosi quasi nella mobilitazione di milioni di persone che sposarono il satyagraha (la resistenza passiva) o raccogliendo tra le righe le tensioni politiche che contrapponevano il Partito del Congresso del Mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru alla Lega Musulmana di Mohammed Ali Jinnah che chiedeva inflessibilmente la nascita dello Stato teocratico, islamico e separatista del Pakistan. Tensioni che, una volta non più stemperate dalle forze dell’Impero, provocarono la migrazione di massa di qualcosa come quasi 17 milioni di persone e generarono terribili violenze, che avrebbero causato circa un milione di morti. La frettolosa divisione lasciò 44 milioni di musulmani nell’Unione indiana, causò innumerevoli reciproche carneficine, la prima delle tre guerre indo-pakistane per il Kashmir (1947- 48) e indirettamente l’assassinio di Gandhi, da parte di un fanatico indù, nel gennaio 1948.

Nella storia che Lapierre e Collins ci raccontano ci sono treni e convogli carichi di famiglie, uomini, donne, anziani, bambini che, in base ad una linea tracciata sulla mappa e in funzione dell'appartenenza religiosa, dovettero lasciare le loro case e migrare altrove scegliendo tra l’India e il Pakistan (due Pakistan in verità, occidentale e orientale, prima che uno diventi il Bangladesh un ventennio dopo). Carovane che erano assaltate, massacrate, da una parte e dall’altra, dimenticando la misericordia di qualsiasi dio potesse essere in cielo. Persone che avrebbero formato nuove comunità dentro nuovi confini, lasciando da un lato le coltivazioni, dall’altro le fabbriche per la lavorazione delle colture. L’imponente migrazione di massa di quel periodo è oggi ricordata come una delle più grandi del ventesimo secolo.

Nello stile che li contraddistingue, talvolta eccedendo nell’uso di uno stile ornato, denso di aggettivi enfatici che emergono in modo cadenzato con una certa ripetitività (non sempre empatica), quasi non bastasse il dramma raccontato a disturbare la nostra sensibilità, gli autori hanno tuttavia la capacità di mostrarci gli eventi come in un film, scena dopo scena, in un impeccabile il lavoro di sceneggiatura da fiction piuttosto che documentaristica, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, alcuni dei quali monumenti della storia come Gandhi o protagonisti indiscussi degli accadimenti, come Lord Mountbatten, ai cui diari personali hanno sapiente attinto a quattro mani. Poco importa se, di tanto in tanto, la camera si sposta ad inquadrare, rallentando l’azione, i dettagli degli abiti, degli oggetti, dei gesti, quasi a volerci distrarre dalla complessità del pensiero indiano o dal dramma in corso. Vorrà dire che ne approfitteremo per prendere fiato, per guardarci intorno. Ed anche per sollevare qualche perplessità su alcuni parallelismi geografici e paesaggistici che, per chi come me ha viaggiato in India, paiono a volte non esattamente coerenti alla realtà. Ma si sa, talvolta l’enfasi narrativa cerca di ammorbidire la crudezza della cronaca e qualcosa si deve sacrificare.

Qualche pregiudizio emerge, è indubbio. Così come è inevitabile dovendo affrontare chi scrive un evento di tale portata sociale e complessità politica e religiosa. Tra le righe si materializza, ad esempio, l’idea di una élite politica indiana inadeguata nella gestione della transizione verso l'indipendenza del proprio Paese, ma resta tuttavia un pensiero, poca cosa senza prove tangibili circa al fatto che la contingenza storica avrebbe consentito scenari e risultati differenti. C’è poi il limite offerto da una visione tutta occidentale dello scenario raccontato, punto di vista che in qualche modo sfuma il concetto orientale di rispetto ai secolari dogmi culturali, così come alla complessità della psicologia religiosa e del misticismo indiano (ben esplicitato in libri come “Da parte della principessa morta” di Kenizé Mourad), tutti fattori che portarono a cruenti contrasti tra le comunità e che fecero da leva alla spartizione dell’impero da parte degli inglesi. Detto ciò, resta fuori discussione che la forza travolgente della narrativa epica del duo francese riduce tali pregiudizi ad una questione marginale del dibattito accademico e nulla toglie alla godibilità della lettura.
… (mer)
 
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Sagitta61 | 28 andra recensioner | Nov 7, 2023 |
Talvolta dimenticato dalle bibliografie dedicate ai conflitti del Medio Oriente, questo “Gerusalemme! Gerusalemme!” di Dominique Lapierre e Larry Collins (Mondadori, 1972, traduzione di Tito A. Spagnol) merita a pieno titolo di essere citato e suggerito. Quando si sente parlare della “presa di Gerusalemme” la memoria scolastica ci riporta alle Crociate, ad esempio al primo grande assedio del 1099, quando durante la Prima Crociata, sotto la guida di Goffredo di Buglione e Raimondo IV di Tolosa, i crociati riuscirono a conquistare la città e ad impadronirsi dei luoghi sacri del Cristianesimo. Oppure il pensiero corre al 1187 quando la riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino provocò il quasi totale collasso del crociato Regno di Gerusalemme. Pochi sanno cosa veramente successe, invece, nel maggio del 1948 tra le mura della Città Santa, quando gli ebrei scendevano per le strade giubilando la nascita di Israele e gli arabi tiravano fuori le armi e si preparavano alla lotta. Ancora una volta Gerusalemme stava per diventare un feroce campo di battaglia che per molto tempo l’avrebbe smembrata in due (est e ovest, oriente e occidente) e le avrebbe poi impedito di assurgere al ruolo di capitale (che fu Tel Aviv per lungo tempo e che per molte nazioni ancora è). Questo romanzo racconta gli uomini, i fatti, i drammi di quella tragica stagione che si concluse con la nascita di un nuovo Stato.

“Quella sera del maggio 1948 il lamento delle cornamuse si diffondeva per l’ultima volta nel dedalo delle antiche stradine. Annunciava la partenza dei soldati britannici che avevano occupato la Città Vecchia di Gerusalemme” (da Gerusalemme! Gerusalemme!).

Nella prima battaglia per Gerusalemme nel 1948 nessuno vinse. La guerra si concluse con un cessate il fuoco che lasciò la Città Vecchia (Gerusalemme Est) nelle mani della Legione Araba Giordana e la Città Nuova (Gerusalemme Ovest) nelle mani degli Israeliani. La città fu divisa per quasi due decenni fino alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando l’esercito israeliano conquistò l’intera Città Santa, riunendola sotto il vessillo ebraico per la prima volta in quasi due millenni. Quella Città Santa alle tre grandi religioni monoteiste del mondo, crocevia tra Asia, Africa ed Europa, fu contesa in quella che molti storici considerano la prima grande battaglia della guerra arabo-israeliana. La raccontano in questo libro, con il loro piglio giornalistico e con quella scrittura che sa fare di un saggio un romanzo a tutti gli effetti, due instancabili reporter investigativi, Larry Collins e Dominique Lapierre, due firme che abbiamo già imparato a conoscere attraverso libri come “Stanotte la libertà”, “Parigi brucia” o “Mezzanotte e cinque a Bhopal”.

Per due anni, gli autori, hanno condotto centinaia di interviste a testimoni oculari delle vicende qui raccontate. Li hanno rintracciati in Medio Oriente, negli Stati Uniti e in Europa. Da migliaia di pagine di racconti hanno saputo dare vita ad una sceneggiatura dal ritmo serrato, in costante movimento, talmente cinematografica che la scrittura basta per vedere, come in un film, i personaggi e gli accadimenti e non c’è bisogno di ricorrere a fotografie (il testo è però corredato di alcune mappe che aiutano a schematizzare la situazione sul campo). Come ebbe a scrivere David Schoenbrun sulle pagine del New York Times “La ricostruzione degli eventi giorno per giorno, a volte minuto per minuto, è presentata con abilità e drammaticità eccezionali”. C’è tanta di quella storia condensata in un’unità di tempo così ristretta che non si può negare a chi scrive un plauso per il ritmo narrativo che supera il peso specifico dei fatti, anzi ne amplifica il dramma, dosando ed alternando squarci di tragedia a sipari di commedia. L’azione si sente, si vive, e chi legge prende fiato solo quando deve riflettere sulla tragica assurdità dei sanguinosi combattimenti per una città che le parti in lotta considerano il “proprio” suolo sacro.
Ho trovato assolutamente impeccabile il lavoro, quasi di sceneggiatura filmica piuttosto che documentaristica, nella caratterizzazione dei personaggi. Non facile visto che in alcuni frangenti parliamo di simboli e non più di persone. Ed ecco dunque l’attenzione ai dettagli, quelli che dilatano l’azione di un minuto (Ben‐Gurion che scrive febbrilmente la storica dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele) in un tempo infinito (Ben Gurion che in quel momento storico resta senza carta e termina di redigere il suo testo sulla carta igienica). Non che sia tutto perfetto: ci vuole infatti un poco di tempo per assuefarsi ad una scrittura che fa largo uso di uno stile ornato, infarcito di aggettivi che emergono in modo cadenzato, talvolta con una certa ripetitività.

A dare slancio ad una narrazione, che non può dirsi semplice nei contenuti (consideriamo anche che il libro arriva in libreria nel 1971 solo quattro anni dopo la Guerra dei Sei Giorni), Larry Collins e Dominique Lapierre ricorrono, a più riprese, ad una costruzione aneddotica per mettere a fuoco eventi e personaggi inediti, dei quali spesso si sono perse le tracce nella saggistica accademica. Vale per tutti l’esempio del colonnello David Marcus, ufficiale americano pluridecorato e “pezzo grosso” dell’apparato militare USA con una promettente carriera innanzi a sé. Egli faceva parte di quella schiera di ufficiali americani che, solidali alle richieste di aiuto di Ben Gurion, si arruolarono nell'esercito israeliano. Quando però il Pentagono si rifiutò di autorizzare il loro intento, essi abbandonarono il progetto, eccezion fatta per il colonnello Marcus, ebreo, che non volle rinunciare a combattere al fianco dei suoi “fratelli”: lasciò gli Stati Uniti e volò in Israele per diventare un generale delle forze armate del nuovo Stato ebraico. Non uno qualunque però: egli ideò piani strategici, addestrò ufficiali e sua fu l'idea di progettare una nuova via di rifornimento tra le colline sulle vecchie mulattiere per aggirare il sanguinario posto di blocco arabo sulla strada da Tel Aviv a Gerusalemme. Ed è a questo punto che Collins e Lapierre diventano grandi. Quando a chiudere il sipario sulla scena ce la descrivono in tutta la sua assurdità: una sentinella ebrea nervosa, scorgendo nell’oscurità della notte una figura vestita di bianco avanzare, sparò e, come scrisse il recensore del New York Times, il generale Marcus fu “il primo generale ebreo ucciso dopo la morte di Giuda Maccabeo, scambiato per un arabo, perché era andato a urinare nei campi avvolto in un lenzuolo”.

Grazie al loro stile, gli autori rendono avvincente il loro racconto (qualcosa che va oltre al romanzo stesso) anche se chi lo legge è “persona già informata sui fatti”. Insomma anche se lo sai come va a finire, non smetti comunque di leggere perché devi scoprire chi ha vinto. E credetemi, non è poco! Così come non è poca cosa che, in un contesto come quello in cui ci proiettano e in quanto autori, essi non intervengono quasi mai offrendo soluzioni interpretative o ponendo la domanda su cosa sia giusto o cosa sia sbagliato. Anzi riescono a non inciampare nei luoghi comuni, insidia non indifferente quando si affronta la contrapposizione tra Israele e il mondo arabo e palestinese.

Vi si trova anche il giusto equilibrio in quel necessario parallelismo nel racconto degli schieramenti, che siano essi definiti o più sfumati, offrendoci ritratti di entrambe le parti. Ad esempio, per la fazione araba, descrivendoci personaggi come Farouk, il dissoluto re d’Egitto, certamente non in grado di offrire al suo popolo la medesima ispirazione patriottica di personalità quali Ben-Gurion e Golda Meir. Oppure come il Mufti di Gerusalemme, estimatore di Adolf Hitler, che non cercava giustizia od una patria per il popolo palestinese, ma solo un bagno di sangue per gli ebrei. Ne emerge tutta la retorica del frammentato mosaico arabo in cui i vari comandanti innalzavano inni alla vittoria completa, salvo poi, nel palese fallimento, mentire ai propri superiori o ai quartieri generali sulla forza ebraica, fornendo in tal modo informazioni pericolosamente false ai comandi. Ruolo che gli autori di questo libro fanno interpretare a tal Fawzi el Kaukji, i cui uomini ruppero i ranghi e fuggirono dal campo di battaglia di Mishmar Ha'emek. Per spiegare la sua battuta d’arresto, Kaukji telegrafò al suo comandante, Safwat Pasha, raccontando della dirompente forza d’urto israeliana composta da centinaia di carri armati, di batterie pesanti, squadroni di bombardieri e caccia ed una una divisione di fanteria completa. Non una parola di quel rapporto era vera e come quella molte altre che originarono errori strategici a cascata che, uniti al fatto che le nazioni arabe diffidavano le une dalle altre e cercavano un proprio guadagno territoriale, spiega forse come mai una nazione che combatteva contro molti nemici in un rapporto di uomini sul campo di 1 contro 40, la ebbe comunque vinta.

Ci sono molti spunti di riflessione, alcuni dei quali possono oggi essere soppesati con la realtà dei fatti, essendo trascorso ormai mezzo secolo e non avendo, il conflitto tra israeliani e palestinesi trovato una soluzione duratura, ultimo episodio l’attacco di Hamas ad Israele di questo ottobre 2023 e la risposta altrettanto disumana dell’esercito di David. Ci sono le ragioni di una e dell’altra parte in cui buoni e cattivi si cambiano di ruolo come gli irregolari israeliani dell'Irgun e della Banda Stern, che sfidarono l'Alto Comando e furono colpevoli del terribile massacro degli arabi a Deir Yassin o il leader arabi che celebravano i massacri di civili come vittorie militari.

Ci sono preziose testimonianze, alcune capaci di offrire l’idea della complessità della situazione. Nel capitolo “Prendete Latrun”, ad esempio, emerge la voce di un inglese, Sir John Glubb Pasha, creatore della Legione Araba di Giordania, un uomo che ha dedicato la sua vita alla causa araba e che agli stessi arabi rinfacciava però di dividersi continuamente in piccoli gruppi, “nessuno prendeva ordini da qualcun altro e poi, quando qualcosa andava storto, qualcuno doveva essere un traditore”. Nel libro è Glubb che afferma che “fino a quando gli arabi non avessero prodotto società, economie e popolazioni più mature, non avrebbero potuto competere con i loro nuovi vicini ebrei e avrebbero fatto meglio a tenersi fuori dalla guerra con loro”.

Ampia la bibliografia (storica letta oggi) a fine volume, preceduta da una ricca sezione di note ai paragrafi di una storia che mostra come Gerusalemme, sin dall’antichità, è una città che affascina, una città di fede e di lotta, un luogo che preoccupa il mondo.
… (mer)
 
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Sagitta61 | 28 andra recensioner | Oct 23, 2023 |
A masterpiece. This is the best book I have read on India's freedom movement, partition, and turbulent times that have ensued after the partition. Meticulous research and gripping narration
 
Flaggad
harishwriter | 28 andra recensioner | Oct 12, 2023 |

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