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Mein ist die Rache

av Friedrich Torberg

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Der Erzähler trifft 1940 an den Landungsbrücken von New Jersey einen Juden, der ihm von seinen Erlebnissen im (fiktiven) Konzentrationslager Heidenburg berichtet.

"Mein ist die Rache" ist eine Auseinandersetzung Torbergs mit den Greueln der NS-Zeit, schonungslos und verstörend. Im Mittelpunkt steht der moralische Konflikt eines KZ-Insassen, der in der Extremsituation der Lagerhaft und Folter zwischen stiller Ergebenheit und Vertrauen in die göttliche Rache auf der einen Seite und aktivem Tun und Selbstbestimmung auf der anderen schwankt.

Vieldiskutiert wurde auch das verwirrende Ende der Novelle, welches meines Erachtens zwar eine literarische Pointe setzt, jedoch Logiklücken im Plot offenbart. Wie auch das Ende ist aber auch der Rest des Werks nicht unbedingt leicht lesbar, phasenweise widersprüchlich und unverständlich. ( )
  schmechi | Mar 6, 2015 |
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Motto
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Era una nebbiosa giornata di novembre dell'anno 1940, e per ben quattro volte ebbi il piacere di attendere sul molo del New Jersey amici dall'Europa. E ogni volta notai la figura strana e curva di un uomo sulla quarantina che si aggirava inquieto nella sala arrivi, avanti e indietro senza sosta, benché camminare non dovesse riuscirgli facile: si trascinava dietro vistosamente la gamba sinistra.
Citat
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Se allora avessimo prestato bene ascolto, ci saremmo accorti che tutto quel sistema di punizioni ideato con raffinatezza non prevedeva neanche una pena collettiva. In diversi campi di concentramento, e fino a quel momento anche a Heidenburg, era del tutto consueto che per l'infrazione di un singolo dovesse pagare l'intero gruppo al quale apparteneva, e per l'infrazione di un gruppo l'intero campo. Wagenseil rinunciò a quel tip di punizione. Perché la comunanza della pena è una comunanza come tutte le altre, essa fortifica e consola - Wagenseil voleva negarci perfino la più debole di tutte le forze, la più sconsolante di tutte le consolazioni. Per di più avviliva la nostra sofferenza. La isolava. La selezionava. La sminuzzava. Era un gourmet, non un crapulone.
Quando compariva dove lavoravamo per prendersi una nuova vittima -al tagliente comando del sorvegliante noi ci bloccavamo come pietrificati sul posto - e poi con la testa un po' inclinata passava in rassegna le nostre righe, i suoi occhi celesti come l'acqua scivolavano inespressivi sui nostri volti contratti, e il silenzio era tale che si sentiva la sua pesante frusta per cani risuonare sorda a ogni passo contro il gambale degli stivali, tac-tac-tac - quando infine, del tutto all'improvviso, indicava con un leggero cenno del capo o con un rapido gesto della mano colui che voleva avere: in quel momento anche fra noi, in mezzo a tutta la disperazione, a tutto quell'impotente digrignare di denti, a tutta la nostra inconsolabile pietà, si insinuava un silenzioso respiro di sollievo, perché era toccato a lui, e ciò significava: a nessun altro. Significava : tu, non io.
Tra di noi c'erano gli ottimisti e i suscitatori di panico, c'erano i paurosi e i misurati, c'erano i vaneggiatori dell'orrore e i vaneggiatori della speranza - e certe volte esprimevano opinioni talmente contrarie da dover chiedersi se davvero l'uno si trovava nella stessa situazione dell'altro. Ma quella sera tutte le differenze si confusero e sfumarono grigie nel tramonto, fino ad annullarsi completamente quando le luci vennero spente [...] quando calò il buio - sì, è proprio quel buio che rammento così bene. Era un buio tremolante, non fitto, come se fosse stato disegnato dai nostri dolori e timori, qua e là vacillava e si bisbigliava - lei cerchi di immaginarsi l'aspetto della nostra baracca, solo cinquanta uomini avevano a turno un giaciglio, mentre gli altri se ne stavano rannicchiati e seduti e sdraiati al buio, così stipati l'uno contro l'altro che riuscivamo a malapena a muoverci - ciò nondimeno si aveva la sensazione di un moto continuo, l'insieme era irreale e spettrale, il confluire di lutto e miseria e paura - le lacrime fioche e senza ritegno per l'anziano defunto - il presagire e l'indovinare, e sempre questa paura, la grande paura - e la ricerca, dolente e spasmodica, di qualcosa che potesse somigliare a un punto di luce - e che cosa mai poteva sembrare luce in quell'oscurità.
Poi irruppe spettrale, folle, fatua, non so da dove né da chi. So solo che la vedemmo tutti, contemporaneamente, e nessuno osava captarla - perché altrimenti si sarebbe forse dissolta - oppure perché era troppo misera e perché ce ne vergognavamo, di quella larva di speranza, di quella consolazione saccheggiatrice di cadaveri [...]
Cosa avvenisse quando Wagenseil si occupava da solo delle sue vittime, non ci era dato saperlo. Ma credo - anzi so - che proprio questo fosse decisivo. Era ciò che faceva apparire il suicidio come salvezza e grazia.
Lo sapevamo - ma non lo capivamo. Non capivamo che un destino al quale dovevamo pur essere rassegnati da anni - solo che gli anni lo avevano offuscato - ci si presentasse ora senza dissimulazioni, repentino, in una nudità così brutale.
Avslutande ord
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