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Vedertagen titel |
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Originaltitel |
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Alternativa titlar |
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Första utgivningsdatum |
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Personer/gestalter |
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Viktiga platser |
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Viktiga händelser |
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Relaterade filmer |
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Motto |
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Dedikation |
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Inledande ord |
Information från den engelska sidan med allmänna fakta. Redigera om du vill anpassa till ditt språk. Era una nebbiosa giornata di novembre dell'anno 1940, e per ben quattro volte ebbi il piacere di attendere sul molo del New Jersey amici dall'Europa. E ogni volta notai la figura strana e curva di un uomo sulla quarantina che si aggirava inquieto nella sala arrivi, avanti e indietro senza sosta, benché camminare non dovesse riuscirgli facile: si trascinava dietro vistosamente la gamba sinistra. | |
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Citat |
Information från den engelska sidan med allmänna fakta. Redigera om du vill anpassa till ditt språk. Se allora avessimo prestato bene ascolto, ci saremmo accorti che tutto quel sistema di punizioni ideato con raffinatezza non prevedeva neanche una pena collettiva. In diversi campi di concentramento, e fino a quel momento anche a Heidenburg, era del tutto consueto che per l'infrazione di un singolo dovesse pagare l'intero gruppo al quale apparteneva, e per l'infrazione di un gruppo l'intero campo. Wagenseil rinunciò a quel tip di punizione. Perché la comunanza della pena è una comunanza come tutte le altre, essa fortifica e consola - Wagenseil voleva negarci perfino la più debole di tutte le forze, la più sconsolante di tutte le consolazioni. Per di più avviliva la nostra sofferenza. La isolava. La selezionava. La sminuzzava. Era un gourmet, non un crapulone. Quando compariva dove lavoravamo per prendersi una nuova vittima -al tagliente comando del sorvegliante noi ci bloccavamo come pietrificati sul posto - e poi con la testa un po' inclinata passava in rassegna le nostre righe, i suoi occhi celesti come l'acqua scivolavano inespressivi sui nostri volti contratti, e il silenzio era tale che si sentiva la sua pesante frusta per cani risuonare sorda a ogni passo contro il gambale degli stivali, tac-tac-tac - quando infine, del tutto all'improvviso, indicava con un leggero cenno del capo o con un rapido gesto della mano colui che voleva avere: in quel momento anche fra noi, in mezzo a tutta la disperazione, a tutto quell'impotente digrignare di denti, a tutta la nostra inconsolabile pietà, si insinuava un silenzioso respiro di sollievo, perché era toccato a lui, e ciò significava: a nessun altro. Significava : tu, non io. Tra di noi c'erano gli ottimisti e i suscitatori di panico, c'erano i paurosi e i misurati, c'erano i vaneggiatori dell'orrore e i vaneggiatori della speranza - e certe volte esprimevano opinioni talmente contrarie da dover chiedersi se davvero l'uno si trovava nella stessa situazione dell'altro. Ma quella sera tutte le differenze si confusero e sfumarono grigie nel tramonto, fino ad annullarsi completamente quando le luci vennero spente [...] quando calò il buio - sì, è proprio quel buio che rammento così bene. Era un buio tremolante, non fitto, come se fosse stato disegnato dai nostri dolori e timori, qua e là vacillava e si bisbigliava - lei cerchi di immaginarsi l'aspetto della nostra baracca, solo cinquanta uomini avevano a turno un giaciglio, mentre gli altri se ne stavano rannicchiati e seduti e sdraiati al buio, così stipati l'uno contro l'altro che riuscivamo a malapena a muoverci - ciò nondimeno si aveva la sensazione di un moto continuo, l'insieme era irreale e spettrale, il confluire di lutto e miseria e paura - le lacrime fioche e senza ritegno per l'anziano defunto - il presagire e l'indovinare, e sempre questa paura, la grande paura - e la ricerca, dolente e spasmodica, di qualcosa che potesse somigliare a un punto di luce - e che cosa mai poteva sembrare luce in quell'oscurità. Poi irruppe spettrale, folle, fatua, non so da dove né da chi. So solo che la vedemmo tutti, contemporaneamente, e nessuno osava captarla - perché altrimenti si sarebbe forse dissolta - oppure perché era troppo misera e perché ce ne vergognavamo, di quella larva di speranza, di quella consolazione saccheggiatrice di cadaveri [...] Cosa avvenisse quando Wagenseil si occupava da solo delle sue vittime, non ci era dato saperlo. Ma credo - anzi so - che proprio questo fosse decisivo. Era ciò che faceva apparire il suicidio come salvezza e grazia. Lo sapevamo - ma non lo capivamo. Non capivamo che un destino al quale dovevamo pur essere rassegnati da anni - solo che gli anni lo avevano offuscato - ci si presentasse ora senza dissimulazioni, repentino, in una nudità così brutale. Poi, me lo ricordo molto bene, da un angolo della baracca si levò un monotono mormorio, persistente, al di sopra del pianto e dei sospiri: qualcuno pregava. Si chiamava Joseph Aschkenasy [...] Era un uomo pio, questo Joseph Aschkenasy, era l'unico a conoscere le preghiere per i morti e le aveva senz'altro già recitate dopo il suicidio di Rosenthal e di Simon - in quel frangente solo in silenzio e più per sé stesso. Ora però la sua voce divenne sempre più forte, finché sovrastò il pianto e i sospiri, finché il pianto e i sospiri ammutolirono, e alcuni si aggiunsero mormorando alla sua preghiera, pregavano come sapevano e come meglio potevano, e dal buio giungevano singhiozzi soffocati, forse qualcuno pensava ai morti, a quanti gli erano mancati, non lo so, può essere, e forse questo lo consolava. Poi calò il silenzio e la completa oscurità. Aschkenasy era considerato nella baracca un tipo strambo. In fondo lo era. Come giudicherebbe lei una persona di quarant'anni che alla domanda sul suo mestiere sa rispondere soltanto: candidato rabbino? Non riuscii mai a scoprire perché non era riuscito a diventare rabbino sul serio. La sua spiegazione suonava così: "Anche come rabbino non si è altro che un candidato. E a che pro, allora?". E se si faceva accenno al cosiddetto lato pratico della vita, se gli si chiedeva di che cosa lui avesse in fondo vissuto, faceva un gesto seccato con la mano: "Siamo alle solite. Come se una cosa avesse a che fare con l'altra!". E a quel punto raccontava ogni sorta di leggende sui nostri vecchi maestri e saggi che pur non avendo badato a questioni del genere erano comunque maestri e saggi. Evidentemente scordava che viviamo nel ventesimo secolo e che non tutto oggi ha lo stesso valore che aveva ai tempi di Hillel. O forse sì? Voglio dire: se una cosa vale, non deve valere anche l'altra? Si può dire: non tutto ha valore, bensì solo questo e. Quello? E chi dovrebbe decidere cosa vale ancora oggi e cosa no? O dovrebbe essere proprio questo il senso e il compito che ci viene imposto: che ognuno abbia da prendere la decisione per sé, ognuno sempre daccapo... eh, già, io la assalgo con le domande, ciascuna delle quali è talmente gravosa che una vita quasi non basta per trovar risposta... Ma non pretendo risposte da lei. Solo da me stesso ho preteso una risposta. "Finché tra di noi vi sarà anche un solo individuo che appende le sue speranze a un "forse" di questo genere, credendo che "qualcosa" possa succedere prima che il destino, che ha già colpito gli altri, lo raggiunga..." e a quel punto Aschkenasy si drizzò in piedi e alzò la voce, alzò pure i pugni serrati portandoli alle tempie "finché uno crede che riguarderà gli altri e non lui - ecco, fino ad allora ci riguarderà sempre tutti". "Aschkenasy, io no voglio offenderla", fu Brenner infine che parlò "ma non crede che certe volte sarebbe meglio non confidare nella vendetta del Signore? Non crede certe volte ciò potrebbe essere una debolezza?" "Una debolezza" ripetè Aschkenasy, e annuì. "Sarebbe forse una debolezza qualora avessimo la scelta tra la nostra vendetta e quella del Signore. Ma abbiamo forse la scelta?" "Io non so cosa sia la Provvidenza. Nessuno lo sa. Consiste proprio in questo: che non la si riconosce. E pertanto non potremo mai capire se esiste o no." "[...] molti si sono dati la morte, da quando questa nuova fatalità si è abbattuta su di noi. E nessuno - non se n'è mai accorto - nessuno di coloro che erano decisi a morire ha prima fatto vendetta. Lei non crede che vi sia qualcos'altro dietro che semplice debolezza e viltà? Lei non crede che per darsi la morte occorre tanta forza e tanto coraggio, per cui non è più una questione di forza o coraggio, quella di uccidere prima anche qualcun altro? [...] Non lo hanno fatto. Anzi di più, credo di più: non è nemmeno passato per la mente. Piuttosto, se pensavano a qualcosa - e se ciò a cui pensavano erano la vendetta, allora era la vendetta che appartiene al Signore. Noi non ne abbiamo un'altra. Perché la vendetta del Signore è al contempo la nostra vendetta." | |
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Avslutande ord |
Information från den engelska sidan med allmänna fakta. Redigera om du vill anpassa till ditt språk. "È la nostra vendetta e noi ci vendichiamo di continuo: in quanto siamo, in quanto siamo ancora. Sempre ancora. E invochiamo non da oggi e non da ieri il Signore per la vendetta. Ci saremmo ancora, se non ci avesse ascoltato? Se non avesse ascoltato i nostri re e i nostri profeti? Già ai tempi dei re e dei profeti lo abbiamo sollecitato alla vendetta esattamente come oggi: Non siate così pusillanimi da credere che questa sia la nostra afflizione e la nostra miseria! Questa è la nostra vittoria! Che il grido e il salmo valgano come tremila anni fa: questa è la nostra vittoria!" (Klicka för att visa. Varning: Kan innehålla spoilers.) | |
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Särskiljningsnotis |
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Förlagets redaktörer |
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På omslaget citeras |
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Ursprungsspråk |
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Kanonisk DDC/MDS |
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Kanonisk LCC |
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Pågående diskussionerIngen/ingaGoogle Books — Laddar...
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"Mein ist die Rache" ist eine Auseinandersetzung Torbergs mit den Greueln der NS-Zeit, schonungslos und verstörend. Im Mittelpunkt steht der moralische Konflikt eines KZ-Insassen, der in der Extremsituation der Lagerhaft und Folter zwischen stiller Ergebenheit und Vertrauen in die göttliche Rache auf der einen Seite und aktivem Tun und Selbstbestimmung auf der anderen schwankt.
Vieldiskutiert wurde auch das verwirrende Ende der Novelle, welches meines Erachtens zwar eine literarische Pointe setzt, jedoch Logiklücken im Plot offenbart. Wie auch das Ende ist aber auch der Rest des Werks nicht unbedingt leicht lesbar, phasenweise widersprüchlich und unverständlich. ( )